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Concerto 15 novembre

OFM – ORCHESTRA FEMMINILE DEL MEDITERRANEO

ETTORE PAGANO, violoncello

ANTONELLA DE ANGELIS, direttore

Compositrici e compositori a confronto


Marianna Martines

Ouverture in Do maggiore

Franz Joseph Haydn

Concerto per violoncello n. 1 in do maggiore

Grazyna Bacewicz 

Concerto per orchestra d’archi 

Arvo Pärt

Fratres per violoncello, archi e percussioni

Giovanni Sollima

Aquilarco 1

 

 

 

Note di sala

di *Gianluca D’ Agostino

 

Marianna Martines – Ouverture in Do maggiore

Molte donne e fanciulle di buona famiglia erano ben istruite musicalmente nel Settecento, così come in epoche precedenti. Poche di esse, tuttavia, lo erano tanto da poter vantare di essere anche compositrici. Questo fu il caso di Marianne Martines, al secolo Anna Catherina von Martines o Martinez (Vienna, 1744-1812), che fu cantante, clavicembalista e, appunto, compositrice. Il padre Nicolò, di origine spagnolo-napoletana, era maestro di camera del Nunzio papale alla corte viennese dell’Imperatore Carlo VI, e in questo modo ottenne una patente di nobiltà. Egli, soprattutto, era amico del celeberrimo librettista e poeta “cesareo” Pietro Metastasio, il quale in effetti fu il padrone della dimora (alla Michaelerplatz di Vienna) dove la famiglia Martines visse per un intero cinquantennio (dal 1734 al 1782). Qui la bambina mostrò grande propensione per la musica e in tal senso fu incoraggiata ed anzi costantemente seguita dallo stesso Metastasio (che la chiamava “la mia piccola Santa Cecilia”). Fu lui a incaricare di istruirla prima il famoso operista napoletano Nicola Porpora, in uno dei suoi vari passaggi per Vienna, poi anche il giovane Franz Joseph Haydn, che era parimenti ospite di quel palazzo. Ulteriori progressi nella musica ella fece grazie ad altri insegnanti illustri, come Hasse, e soprattutto grazie al favore di cui godette presso l’imperatrice illuminata, Maria Teresa d’Austria, che la collocò in breve in una posizione privilegiata nella vita artistica viennese, incoraggiandola ad esibirsi e ad eseguire le sue proprie composizioni. In questo modo Marianna si trovò spesso invitata a serate musicali animate da talenti straordinari, come lo stesso Haydn e come i due Mozart, padre e figlio. Sempre grazie al Metastasio, entrò in contatto con musicisti e critici italiani del calibro di Saverio Mattei e di Padre G.B. Martini, che le schiusero le porte della conoscenza della polifonia sacra e al contempo le tributarono riconoscimenti “accademici”. Non è poco, per una donna di quei tempi. Eppure, nonostante la fama, i riconoscimenti e l’ammirazione di musicisti e reali, nessun’opera della Martines fu pubblicata quando lei era in vita. Ebbe comunque la soddisfazione di vedere la sua casa trasformata in una vera e propria Accademia musicale, da cui vennero sfornati parecchi talenti. Relativamente al primo brano che ascolteremo stasera, l’Ouverture (o Sinfonia) in Do maggiore, il primo movimento, con quell’incipit così teatrale e appunto spiritoso, parrebbe derivare da una sinfonia d’opera italiana, piuttosto che da un concerto grosso haendeliano; se non che la tecnica di elaborazione tematica qui in atto è già d’impronta inequivocabilmente classica, e dunque subito appare chiaro che ci troviamo in un altro contesto. Ammirevole qui, specialmente, è la condotta orchestrale, che è prescritta in maniera affatto sicura e facendo grande attenzione alla scorrevolezza del discorso, ottenuta anche grazie al giusto dialogare strumentale e con l’impiego di pause efficaci e di ricapitolazioni briose. Il tutto, insomma, riesce in una frizzante miscela di gusto viennese e italiano. L’Andante centrale, con la sua eleganza melodica un po’ affettata, pecca forse di leziosaggine, ma pure denota pregevoli concertazioni tra i fiati e tra questi ultimi e gli archi. Mentre l’ultimo movimento, una danza in forma ternaria, ha una prima parte chiaramente bitematica che viene ripetuta, cui segue una brevissima sezione centrale in minore, e infine torna la ripresa della prima parte.

Franz Joseph Haydn – Concerto n° 1 in do maggiore per violoncello e orchestra, Hob: VIIb:1

A quello stesso Haydn (1732-1809) che aveva, da giovane, insegnato alla piccola Martines, si fa talvolta un gran torto, svalutando alcune sue composizioni “di circostanza” o nate su commissione (soprattutto per i principi Esterhazy), e paragonandole a quelle dell’amico Mozart o dell’allievo Beethoven. Si dimentica infatti che in molti casi Haydn li precedette e additò loro la strada maestra, soprattutto per quanto concerne l’elaborazione formale (è pur sempre il “padre” del quartetto e della sinfonia, ma fu anche innovatore nei generi drammatici e altrove), ma anche nei principi compositivi dello stile, così saldamente razionali, ad esempio nella tecnica di costruire a partire da poche premesse iniziali, quindi sfruttando il potenziale latente delle note fondamentali. Però è vero che nei concerti solistici (una ventina, composti per i più vari strumenti) non va forse cercata la più alta prova del suo immenso talento; poiché in essi prevale il carattere più leggero, se non proprio “disimpegnato”, dell’ispirazione, oltre all’impellenza di dare spazio al virtuosismo dell’interprete. Si sente bene, anche ascoltando in modo superficiale, che le ripetizioni tematiche sono molto nette e che il periodare è fin troppo circoscritto e dunque prevedibile; in effetti, che manca una vera e propria dialettica “drammatica” tra il solo e il tutti, il che poi sarà una conquista, appunto, mozartiana. Nel caso in questione, una copia di questo primo Concerto per violoncello appartenne a Joseph Franz Weigl (padre del compositore omonimo), che tenne il posto di violoncellista nell’orchestra degli Esterhazy tra 1761 e 1769; ciò che rende probabile che Haydn lo compose proprio per costui, in quello stesso periodo di tempo. Nel primo movimento (Moderato) si sente ancora l’eredità del Barocco: i due temi principali dell’esposizione, invero privi di una fisionomia inconfondibile, vengono prima enunciati dall’orchestra e poi ripresi dal solista, e questa sequenza viene ripetuta; si entra così in una fase di sviluppo, che vede essenzialmente protagonista lo strumento solista con notevole sfoggio di abilità, ma anche di una decisa cantabilità; e infine c’è la ripresa, conclusa da una bella cadenza solistica. Nel successivo Adagio il tema è più bello e nobile (a qualcuno potrebbe ricordare la celeberrima “Romanza” beethoveniana per violino e orchestra): esposto dall’orchestra e poi dal solista, rappresenta un piccolo compendio di “stile classico”, ad esempio nell’avere la sua cellula melodica, di matrice chiaramente esornativa e barocca, che viene ripetuta sulla progressione di basso dal III al VI grado, per poi ricadere sulla tonica. Poi anche qui c’è una sorta di sviluppo modulante, breve ma intenso, e più intensa ancora è la riepilogazione finale, che parimenti conduce ad una cadenza solistica molto espressiva. L’inizio dell’Allegro molto, alla fine, ha il tipico incedere brioso delle sinfonie d’opera (quando attaccano il tema dopo l’introduzione lenta), ma poi la scena è tutta presa dal solista, impegnato in una scrittura che lo costringe a un vero tour de force, ivi comprese le fioriture di matrice belcantistica. Degli interventi dei fiati si odono a questo punto, distintamente e direi forse per la prima volta, ma soprattutto vi fa ogni tanto capolino un tema in do minore che getta come un velo d’ombra malinconica sul brano: malinconia mozartiana, penseremmo subito, ma così dicendo faremmo il solito torto a “papà” Haydn!

Grazyna Bacewicz – Concerto per orchestra d’archi 

Con la compositrice polacca Bacewicz inizia la parte contemporanea del concerto di stasera. Grazyna Bacewicz (Łódź 1909 – Varsavia 1969) è ancor oggi poco più che un nome fuor di patria, e ciò sorprende alquanto, considerando la celebrità di cui godette in vita. Fu una bambina-prodigio sia come pianista sia come violinista, formandosi prima in famiglia e poi studiando al Conservatorio di Varsavia; quindi imboccò la strada della composizione, vincendo anche vari premi, e dovendo destreggiarsi in un ambito quanto mai appannaggio degli uomini. In effetti la sua formazione e la sua fama si completarono ed accrebbero anche grazie agli stretti legami con l’ambiente parigino, dove negli anni Trenta si perfezionò con il grande pianista Ignacy Jan Paderewsky, con il violinista Carl Flesch e con la celebre compositrice Nadia Boulanger. Ricoprì poi il ruolo di primo violino presso l’Orchestra della Radio Polacca, e in questa veste effettuò molte tournée. Dopo la Seconda guerra mondiale, che com’è noto era stata particolarmente atroce per la Polonia (con Varsavia rasa al suolo e molte altre città brutalmente occupate dai tedeschi), fu docente al Conservatorio della sua città natale e poi nella capitale, potendosi dedicare principalmente alla composizione e alla didattica, ma anche alla critica e all’organizzazione musicale, e assurgendo fino al ruolo di vicepresidente dell’Unione dei Compositori Polacchi. Ebbe pure le sue difficoltà nel dover convivere con le critiche espresse dal regime staliniano, per cui ciò che non era allineato veniva proibito in nome del “realismo socialista”; e forse ancor più gravosa fu per lei la sostanziale avversione della critica, sempre tutta al maschile beninteso, che le rimproverò fino alla fine il “continuo sperimentalismo” e gli “incessanti cambiamenti dello stile”. Nella sua produzione spiccano le pagine dedicate al violino, suo strumento prediletto (sette concerti, cinque sonate con pianoforte, tre per violino solo); ma l’autrice spaziò in vari generi, dalle sinfonie, alla musica vocale, ai quartetti (sette, dal 1938 al 1965), e dalle musiche di scena a quelle per il cinema e la radio. Sebbene composto dopo la guerra, il Concerto per orchestra d’archi (1948) sembra risentire ancora del precedente clima parigino, nel senso di una sua opzione che potremmo chiamare “neoclassicheggiante”, che pare evidente sia nell’adozione dello stile concertante (si consideri la grande perizia della Bacewicz nella tecnica degli strumenti ad arco), o negli effetti di ripetizione imitativa quasi barocchi, sia nel fatto che il linguaggio è sì quasi atonale, ma senza prescindere del tutto dalla logica derivativa della forma-sonata. Il primo movimento è giocato in una sorta di continuum ritmico, su cui si innestano due temi principali, il primo dei quali caratterizzato da ampie discese melodiche che paiono convergere sempre nel medesimo punto, e l’altro tema avente invece carattere più ritmico ed un colore più cupo. Si evidenzia, ad ogni modo, l’ottima padronanza del contrappunto e dei buoni effetti drammatici ottenuti anche con pause a effetto. L’Andante, che ci pare la pagina più felice, parimenti s’incentra sulla riflessione contrappuntistica: c’è un melodiare esteso, sinuoso, ma fondamentalmente peregrino (che almeno superficialmente ricorda la schoenberghiana Notte trasfigurata), che si staglia su un ostinato discendente, creando così un effetto straniante, ma efficace. Il Vivo finale, invece, pur essendo caratterizzato da una maggiore vivacità ritmica, appare in fondo statico: l’inizio arrembante è quasi in tempo di marcia, poi la trama sonora indugia in arabeschi sonori e in capricciose volute dei violini, ma la direzione generale del pezzo sembra un po’ smarrirsi.

Arvo Pärt – Fratres, per violoncello, archi e percussioni

E ora un passo ulteriore verso la contemporaneità dell’oggi. Fratres è il titolo di un’opera del compositore estone Arvo Pärt, considerato l’inventore del “minimalismo sacro”. È invero un’opera “variabile”, nel senso che di essa esistono svariate versioni previste dall’autore per un’ampia varietà strumentale. La prima versione, per quartetto d’archi e quintetto di fiati, fu scritta nel 1977, e questa data è importante perché di pochissimo successiva a quella del ‘76, che Pärt stesso fissò come termine “a quo” del suo nuovo e definitivo stile compositivo: la cosiddetta “tintinnabulazione”, basata su accordi ripetuti sostanzialmente tonali, che risuonano come campane o campanelli, e che avrebbero proprietà fortemente evocative se non addirittura mistiche. Da allora e fino alla versione scritta per violoncello, archi e percussioni che ascolteremo stasera, e che è del 1995, il compositore ha realizzato almeno sette versioni diverse di quest’opera. A fronte della variabilità dell’organico strumentale, la struttura generativa di base è molto semplice e appunto minimale: una sequenza di nove accordi, separati da un motivo percussivo ricorrente, sopra i quali lo strumento solista esegue figurazioni di volta in volta diverse, in effetti seguendo la classica logica del “tema con variazioni”. La tonalità costante è grossomodo quella di La maggiore, ma “orientalizzata”, cioè avente la scala con il secondo grado abbassato di un semitono: l’effetto è da subito molto suggestivo e si può avere l’impressione di entrare in una musica da “mistery film”. All’inizio si ode il violoncello solo, che esegue una lunga e complessa sequenza di figurazioni in velocissime sestine che creano come un continuum sonoro. Interviene poi la famosa sequenza di accordi; quindi riprende il violoncello con un altro lungo fraseggio in quartine legate. E così via, attraverso armonie costanti, ma con figurazioni del solista mano a mano diverse e cangianti, molto variabili anche dal punto di vista della dinamica e della tecnica d’arco; diverse anche perché incasellate entro ritmi sempre diversi (si tratta in effetti di battute anisoritmiche e di ritmi molto irregolari, alla Stravinskij, per intenderci), che tuttavia anche qui si susseguono in una sequenza fissa: 6/4, 7/4, 9/4, 11/4.

Giovanni Sollima – Aquilarco 1

Infine una musica italiana di oggi. Aquilarco è il titolo di un album del compositore e violoncellista palermitano Giovanni Sollima, del 1998; altre otto tracce dell’album recano lo stesso titolo, dunque il brano che ascolteremo è il primo della serie ed infatti è concepito (e sottotitolato) a mo’ di “preludio”. Si è da subito calati “in medias res”, con il solista che esegue un’impetuosa introduzione molto ritmica e incalzante, dai toni anche drammatici e urgenti: in effetti, un vero pezzo di bravura che richiede grande destrezza e abilità all’interprete. Si innesta poi su di esso la compagine strumentale, che presenta un tema più definito, anche se non molto più posato del precedente, nel quale sembra di riconoscere un tango. Il solista a questo punto intreccia una fitta dialettica con gli altri strumenti, che mantiene comunque l’andamento impetuoso e il profilo tagliente dell’inizio.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti 

 

 

 

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