ALEXANDER LONQUICH, pianoforte
Ludwig van Beethoven – Variazioni in do maggiore su un valzer di Diabelli op. 120
Franz Schubert – Sonata in si bemolle maggiore, D. 960
Note di sala
di *Gianluca D’ Agostino
Ludwig van Beethoven, Variazioni in do maggiore su un valzer di Diabelli op. 120
La storia delle Trentatré Variazioni sopra un valzer di Diabelli di Ludwig van Beethoven (1770-1827), benché piuttosto nota, merita di essere rammentata, anche perché rappresenta lo spaccato di un’epoca. Intorno al 1819 il musicista-editore austriaco Anton Diabelli (1781-1858) ebbe l’idea di piegare a fini commerciali quel po’ di talento musicale che aveva (“poco”, relativamente a quei tempi, affollati di super-giganti) e di comporre un semplice valzer da inviare “agli eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e degli Imperial regi Stati austriaci”, affinché ognuno vi scrivesse sopra una propria variazione, com’era costume dell’epoca. Il risultato ottenuto gli avrebbe consentito di allestire e poi vendere una raccolta di “Variazioni sul tema” nuova di zecca ed anzi, per usare le sue stesse parole, un «Dizionario alfabetico di tutti i nomi dei musicisti, in parte già da lungo tempo affermati, in parte ancora molto promettenti, della nostra magnifica epoca». Risposero molti musicisti, in effetti, e da ogni angolo del vasto, vario e ancora prospero (ma non certo democratico) Regno: dai nomi già celebri (Schubert, Czerny, Hummel, Kalkbrenner, Moscheles), a quelli ancora non tali (il giovanissimo Liszt), o anche non destinati ad esserlo (il figlio omonimo di W. A. Mozart). E non lo fecero solo musicisti di mestiere, ma anche nobili dilettanti (come l’Arciduca Rodolfo, l’allievo-mecenate di Beethoven) e musicanti vari. Diabelli alla fine prescelse cinquantuno autori, ma il suo “Dizionario”, pubblicato nel 1824, escluse proprio il maggiore di tutti, Beethoven. Non a caso, però: giacché quest’ultimo aveva già interpretato l’invito in modo affatto personale e, dopo qualche tentennamento iniziale, provveduto a consegnare al lungimirante editore non una, bensì ben trentatré variazioni su quel tema! Un po’ troppe, per starci nello stesso libro con le altre, ma più che abbastanza per formare una nuova pubblicazione indipendente, l’Opus 120 appunto, uscita a stampa già prima dell’altra (nel 1823: l’anno successivo sarebbe apparsa anche la Nona Sinfonia, tanto per capire di quale periodo creativo stiamo parlando). Come, da una cosa modesta e facile come il valzer di Diabelli in sedici battute (più sedici, considerando le ripetizioni), Beethoven possa aver ricavato così tanto materiale, pari allo sviluppo di quasi un’ora di musica (infatti è la sua composizione pianistica più lunga), è cosa straordinaria, unicamente imputabile al suo immenso genio. Un fine conoscitore come Carli Ballola faceva notare che il Maestro non era affatto nuovo a tali sfide e che anzi «l’arte della variazione dell’ultimo Beethoven prediligerà questi temi deliberatamente poveri, questi ‘temi-pretesto’ da smontare e ridurre a puri graticci di sostegno per una proliferazione sonora quasi completamente autonoma». Chiara comunque, alla fine, fu l’intenzione di presentare l’opera come una sorta di grande summa pianistica. Che il tema sia “povero” (ben diversamente, per intenderci, da quello delle Variazioni Goldberg di Bach, che naturalmente sono il grande precedente tipologico riscontrabile nel repertorio), appare evidente dal non avere, esso, quasi affatto pregnanza melodica, né alcuna grazia speciale, componendosi solo di una piccola anacrusi iniziale e di un semplicissimo ritmo e di un’armonia tonica-dominante, andata (“prima parte”) e ritorno (“seconda parte”), più elementari progressioni modulanti e cadenze. Ma, evidentemente, per il Maestro ciò era più che sufficiente. Ora, una puntuale analisi di tutte le variazioni, ognuna peraltro dotata di un ben distinto carattere, così come di un suo proprio titoletto con l’indicazione del tempo, occuperebbe troppo spazio e sarebbe spropositata. Invece qualche considerazione sulla struttura generale appare doverosa, così poi, magari, da puntare a dei rapidi “flash” sui momenti più significativi (se così possiamo dire), di questa grande ed enciclopedica opera. La prima cosa da osservare è proprio il titolo originale, che recita “Veränderungen” e che in tedesco significa “Trasformazioni” o “Cambiamenti”, il che non è proprio la stessa cosa di “Variationen”. In effetti ciò corrisponde al concetto che Beethoven aveva della variazione e in fondo della musica stessa, in quanto processo creativo incessante; per cui, dopo un esordio più o meno convenzionale, deve iniziare subito l’elaborazione della materia musicale, secondo canoni improvvisativi assolutamente personali, che non badino agli elementi esornativi e caduchi del linguaggio, ma a quelli più intimamente strutturali e fondanti. Un esempio è dato dalla tecnica di estrapolare alcuni elementi costitutivi del tema, come ad esempio proprio quell’anacrusi iniziale, e di porli alla base delle singole variazioni, alla stregua di “motivi” caratterizzanti. La seconda considerazione generale è che in uno schema bipartito come quello che informa ciascuna variazione, la “seconda parte” è spesso da intendersi non come semplice “risposta” alla “prima” (o “proposta”), ma come sua immagine riflessa e complementare; il che è dimostrato dalla disposizione simmetrica e appunto speculare di molti elementi costitutivi (tipicamente il materiale melodico, che spesso si ripete per moto contrario, o i ritmi, che tornano invertiti, ma anche la disposizione tematica tra i due registri, ecc.). Altri rilievi più “strutturalistici” (come quelli sulla cosiddetta “sezione aurea”, per cui la suddivisione dell’opera corrisponderebbe allo schema 5-8-8-8-5) ce li risparmiamo, in quanto eruditi e probabilmente un po’ tediosi per i non specialisti. In effetti, anche ad un ascolto “libero” e privo di particolari istruzioni o schemi concettuali, le “Variazioni Diabelli” appaiono per quello che sono, espressione sonora del mondo interiore del Maestro ed anelito a lanciare un messaggio costruttivo e morale, come solo lui sapeva fare: messaggio naturalmente affidato alla musica “assoluta”, cioè alla musica strumentale, quella che i grandi scrittori romantici tedeschi avevano proclamato e consacrato da tempo come superiore a tutte le altre. Ed è un mondo interiore, quello beethoveniano, così tanto ricco e complesso da non aver ancora smesso, secondo molti esegeti ed interpreti, di insegnare qualcosa di nuovo ai posteri e dunque a chiunque di noi, suoi ascoltatori contemporanei. Fin dalla Prima variazione (“Alla Marcia, maestoso”), si rimane perfino sconcertati dal vedere modificato il tempo ternario del valzer in un tempo binario di marcia: il che, come minimo, snatura l’originale. E quanto contrasto intercorre tra i pesanti e martellanti accordi in “sforzando” di questa variazione, e il leggero ma singhiozzante ritmo sincopato della seconda, che fa davvero pensare ad una corsa tra gli alberi, tra elfi e folletti! Il tempo ternario, invero, verrà subito ripristinato nel seguito, ma del tema originale solo questo rimane. La terza variazione si apre serena e lirica, con un tema che è certamente “armonico”, ma anche nobilmente lirico; eppure anche qui: nella seconda parte quelle enigmatiche, quattro o cinque battute con l’ostinato della mano sinistra (La-Sib-Do, La-Sib-Do, ecc.), cosa mai significheranno e da dove escono fuori? Analogamente, nella quinta variazione lo spunto principale sembrerebbe essere meramente ritmico, ma nella “risposta” si vede bene che invece è l’armonia al cuore del discorso. E questo vale ancor più per la Sesta, con quei trilli di cui è fittamente innervata, peraltro al di sopra di un intricato discorso polifonico (di memoria bachiana, il che vale non solo qui ma ovviamente anche altrove, segnatamente con la variazione XXIV, “Fughetta Andante”, o con la grande Fuga, XXXII). Un motivo esornativo (questa volta non un trillo, ma una capricciosa acciaccatura) domina anche la Nona variazione (Allegro pesante e risoluto); ma pure qui, dopo un inizio apparentemente goffo o grottesco, si capisce che la cosa è invece “serissima” e che l’intenzione del discorso, pur nella sua brevità aforistica, è quella di proporre un “micro-viaggio” sostanzialmente armonico: viaggio che Beethoven è capace di fare conducendo in regioni subito lontanissime, ma da cui sa sempre anche come riportarci a casa. La stessa cosa dicasi per la XIV variazione, che è più dolcemente lirica ed anche fantastica; in effetti si avverte spesso una sorta di condensata sequenza che assimileremmo alle tappe della strategia narratologica: presentazione-complicazione-spannung-scioglimento. Le XVI-XVII sono due tipiche variazioni di bravura: tutte trilli, ottave spezzate, passaggi velocissimi. E se per questo, virtuosistiche lo sono anche altre, come la XXIII o la XXVII. Altre volte prevale un mero divertimento “danzereccio”, come nella XXV. Ma già con la XVIII la fantasia romantica torna al potere, ed il “passeggiato” cromatico per seste parallele delle due mani porta verso regioni del tutto nuove e inascoltate. Le quali tuttavia sono ancora poca cosa, se confrontate alle sonorità evocate nella XX variazione, a volte definita “sfinge” od “oracolo”, da alcuni critici, proprio per via della sua misteriosità così suggestiva. Cosa succede, poi, con la XXII variazione? Qui Beethoven accantona ufficialmente Diabelli (ufficiosamente dismesso quasi subito, come detto) e si mette a citare il gran genio di Mozart, precisamente l’aria di Leporello “Notte e giorno faticar”, dal Don Giovanni. Si capisce, però, che qui la citazione è parodistica, poiché lo sviluppo armonico piega presto verso altre direzioni, che non sono né mozartiane, né (ovviamente) diabelliane. Si gioca con le ambivalenze ritmiche (3/8 contro 6/16) nella elegantissima variazione XXVI, e ancora con il ritmo, ma in modo direi più brutale, con la XXVIII. Poi si vira, improvvisamente, di tonalità e con la XXIX si approda ad un serissimo (e tragico) Do minore, in una variazione che ha quasi la funzione di preludio della successiva, XXX, che ha sua volta è basata su un incantevole contrappunto, e che ancora prelude alla XXXI, che ha la morbidezza di un cantabile chopiniano, ma forse con ancor maggiore profondità. La XXXII è una doppia fuga, classica, con la quale si potrebbe pensare il Maestro volesse concludere, in modo se vogliamo un po’ scolastico, questa sua grande avventura pianistica. E invece non è così, poiché la XXXIII e ultima variazione riprende un classico minuetto di stampo haydniano o mozartiano, come estremo omaggio appunto al Classicismo, ma ormai arricchito non tanto da una profondità quanto soprattutto da una pensosità sconosciuta a quegli autori e a quel tempo.
Franz Schubert, Sonata in si bemolle maggiore D 960
Anche la Sonata in si bemolle maggiore D 960 di Franz Schubert (1797-1828) fu pubblicata da Diabelli (ma postuma) e anch’essa inizia con un tema semplice, di una tranquilla cantabilità accordale, a metà strada tra un lied e un corale, per poi subito complicarsi, già alla prima riproposta del tema stesso, nella parte dell’accompagnamento. E, come e perfino più che in Beethoven, in questa grande pagina pianistica dell’estremo Schubert, composta appunto nell’ultimo anno della sua breve e infelice ma creativissima vita (insieme alle altre due sonate “gemelle”, la D 958 in do minore e la D 959 in la maggiore), atmosfere liriche e limpide si alternano a improvvisi empiti cupi e drammatici. Così è, limitandoci al primo movimento (Molto moderato), per quello strano trillo al registro grave, di sapore quasi lisztiano, che subito inframmezza il tema lirico e che tornerà varie volte; così è per le terzine che accompagnano la riproposizione del tema e che pure si ripeteranno più avanti in forma variata; e ancora, così è per altre singolari figurazioni ritmiche, che dal basso risalgono verso l’acuto e viceversa; o per curiose oscillazioni armonico-tonali che si affacciano in vari luoghi, screziando mirabilmente non solo la melodia ma l’intera trama sonora, come solo in Schubert (e in Schumann) accade di trovare. Per il resto, null’altro accomuna quest’opera, apparentemente semplice, al modello delle ultime sonate pianistiche beethoveniane (che d’altronde non potevano non essere tenute presenti); se non, ancora, le ampie dimensioni, che in effetti tradiscono una pari ambizione di voler esperire una qualche monumentalità, seppure in modo completamente diverso dal Maestro. Dove lì c’era una ferrea logica derivativa e una volontà titanicamente assertiva, qui domina lo spirito fantasioso ma anche, in fondo, la consapevolezza ben espressa dal titolo di quel Lied, Ich bin ein Waller auf der Erde (“Io sono un pellegrino sulla terra”). Non a caso Robert Schumann, nella sua impareggiabile veste di esegeta dei “Romantici”, così descrisse la sonata: “una semplicità di invenzione che … distende e dipana alcune idee musicali generali. Così la composizione scorre mormorando di pagina in pagina, sempre lirica, senza mai pensiero per ciò che verrà, come se non dovesse mai arrivare alla fine, interrotta solo qua e là da fremiti più violenti, che tuttavia si spengono rapidamente”. E però forse nemmeno quest’arguta descrizione basta per attingere l’alto livello artistico del capolavoro schubertiano, le cui molte finezze (più che strategie compositive) possono sfuggire ad un ascolto fuggevole e andrebbero reperite in sede di analisi: una per tutte, quelle terzine che avevamo incontrato all’inizio del primo movimento, al basso, tornano, all’altezza dello sviluppo (perché qui siamo sempre nell’ambito della forma-sonata), trasposte all’acuto e in una diversa sequenza figurativa, quali delicati arabeschi melodici, che poi comunque cedono il passo a note ribattute quasi ossessive. Dopo il lungo, ma mai stancante primo movimento, l’Andante sostenuto, scritto nella patetica tonalità di do diesis minore (o re bemolle minore), è ancor più bello e ispirato, e strutturato in modo tripartito, con la prima e ultima sezione caratterizzata da una melodia solenne ma terribilmente mesta, accompagnata alla sinistra da una geniale figurazione ostinata che combina lo slancio in alto (per ben tre ottave) con il rintocco da campana funebre. Invece l’episodio centrale, in la maggiore, ha un tono più chiaro e sereno e il carattere, di nuovo, da lied strumentale, svolto su un accompagnamento molto vario e mobile. Si notino qui almeno due cose: la prima, al termine di questa sezione centrale, il bellissimo momento in cui le terzine si riaffacciano all’acuto, accompagnando la melodia, ancor più acuta, con tenero trasporto; la seconda, la conclusione del movimento espressa nella tonalità parallela maggiore, che a me pare avere proprio il senso religioso di una celestiale resurrezione. Il successivo Allegro vivace con delicatezza ci trasporta, soprattutto per via di quei suoi ritmi spiritosi e dei delicati abbellimenti, o del “botta e risposta” tematico tra registro acuto e grave, in quella dimensione socievole e amabile del far musica, ch’era propria del mondo viennese di quel tempo. E tuttavia il breve trio centrale, in minore, contrasta notevolmente con tutto questo. Del finale, Allegro ma non troppo, è geniale l’attacco, con quell’accordo sospeso che sembra preludere a chissà quale dramma, e che invece è seguito da una tema amabile e molto “passeggiato”, secondo quel tipico spirito schubertiano che potremmo riassumere con la formula: “Signori vi propongo il dramma… No, vabbè, sdrammatizziamo subito!” Qui non sfugga, comunque, almeno una caratteristica della scrittura pianistica tipicamente romantica, ossia la melodia armonica, intesa come inscindibile flusso di melodia e accompagnamento. E soprattutto non sfugga il momento in cui due accordi violenti affermano la tonalità di fa minore e in cui Schubert sembra presentarci letteralmente, con quella energica melodia accordale puntata, il grande “convitato di pietra”, ossia il possente spirito beethoveniano, da pochissimo trapassato, colui che in fondo aleggia dall’inizio alla fine di questo movimento.
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