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Concerto 4 aprile

 

FILIPPO GORINI, pianoforte
I SOLISTI AQUILANI

Nino Rota – Concerto per archi;

Ludwig van Beethoven – Concerto n. 3 in do minore op. 37 per pianoforte e orchestra;

Benjamin Britten – Simple Symphony op. 4

 

Note di sala

di *Pierpaolo de Martino

 

Nino Rota – Concerto per archi

«Ogni problema mi interessa, essendo curioso di vedere come può esser risolto, indipendentemente dal giudizio di valore che potrei dare sulle cose»: in quest’affermazione può essere riassunto l’atteggiamento con cui Nino Rota (1911-1979) si accostò ai generi musicali più disparati, rendendosi disponibile a esperienze nei nuovi ambiti del cinema, della radio e della televisione, senza tuttavia mai dimenticare i contesti e le istituzioni più tradizionali. Per la maggior parte del pubblico il suo nome resta prevalentemente legato alle numerosissime colonne sonore realizzate al fianco di alcuni grandi registi, ma in tempi relativamente recenti sempre più diffuse si stanno facendo esecuzioni e analisi storico-critiche della restante parte della sua ricchissima produzione. Dopo l’adolescenziale Concerto per violoncello, del 1925, Rota tornò a interessarsi alla forma del concerto nel secondo dopoguerra, prima con il Concerto per arpa (1951) e poi, soprattutto, con il Concerto per pianoforte e orchestra, scritto nel 1960 per Arturo Benedetti Michelangeli (che tuttavia non lo eseguì mai), capostipite di una lunga serie di altri lavori consimili. Il genere in effetti apriva per Rota un campo di azione non dissimile da quello cinematografico nel mettere alla prova il suo gusto di muoversi entro perimetri d’azione circoscritti da “regole del gioco” molto vincolanti. D’altronde il concerto si dimostrava a quel tempo una delle più solide e resistenti eredità dell’Ottocento, alla quale andavano attingendo anche esponenti delle avanguardie seriali e post-seriali: un genere alla cui fortuna contribuivano in pari misura le ambizioni degli strumentisti, il gradimento del pubblico, le convenzioni dello spettacolo musicale. Il rinnovato interesse di Rota per la forma-concerto si può dunque motivare guardando al panorama musicale italiano degli anni Cinquanta-Sessanta, nel quale l’impetuosa impennata dell’offerta concertistica andava di pari passo con la crescita del pubblico: di qui le diverse committenze di strumentisti, amici e colleghi che vennero ponendo Rota di fronte a problemi tecnici e musicali di volta in volta differenti, sfide accattivanti per la sua curiosità innata. Fu proprio su commissione di un gruppo famoso, I Musici di Roma, che nel 1964-65 Rota compose una delle sue pagine strumentali oggi più eseguite, il Concerto per archi,pressoché coevo delle colonne sonore firmate per capolavori come Il Gattopardo, Otto e Mezzo, Giulietta degli spiriti. Composto di quattro brevi movimenti tra loro collegati da ricorrenze tematiche, il Concerto si muove con leggerezza e disinvoltura fra tradizioni ed epoche diverse, dal concerto grosso alla serenata ottocentesca, da Bach alle avanguardie storiche. L’apertura è affidata a un Preludio neo-barocco, in due parti di carattere contrastante, che lascia presto il campo a uno Scherzo il cui passo leggero assomiglia a quello di un Valzer nostalgico, con due sezioni solistiche; segue l’Aria, un neoclassico omaggio al celeberrimo secondo movimento della terza suite orchestrale di Bach, e infine l’indiavolato e fulmineo Allegrissimo conclusivo, che si proietta nell’orbita di Prokofiev.

 

Ludwig van Beethoven – Concerto per pianoforte e orchestra in do minore n. 3 op.37

Nell’ideale itinerario descritto dai cinque Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven, il Terzo rappresenta un momento cruciale, nel suo mettere in discussione i passi compiuti fino a quel momento e, allo stesso tempo, nell’aprire una linea di sviluppo che, con i due concerti successivi, avrebbe dato luogo a esiti rimasti punti di riferimento ineludibili per tutto l’Ottocento. Beethoven stesso alluse a tale momento di svolta in una lettera all’editore Hoffmeister del dicembre del 1800 nella quale scriveva di aver terminato «un Concerto per pianoforte che certo non pretendo di far passare come uno dei miei migliori [il secondo op.19], così come un altro che sarà pubblicato qui da Mollo [il primo op.15], perché i migliori li tengo ancora per me, per il prossimo viaggio che farò»: con l’ultima frase il compositore si riferiva proprio al Terzo Concerto che doveva essere allora largamente  abbozzato e che tuttavia venne ultimato e dato alle stampe solo nel 1804. Ancora alla prima esecuzione pubblica, avvenuta a Vienna il 5 aprile 1803, la parte pianistica non era finita, stando a quanto avrebbe ricordato Ignaz von Seyfried che ebbe l’incarico di voltare le pagine a Beethoven in quell’occasione: «la cosa era più facile a dirsi che a farsi: non vedevo davanti a me quasi altro che fogli vuoti; tutt’al più qualche spunto da servire come promemoria, incomprensibile per me come un geroglifico egiziano». La lentezza con cui il Concerto op.37 venne portato a termine può essere messa in relazione con la fase di crisi attraversata da Beethoven in un lasso di tempo segnato dalla scoperta della sordità, dallo sfortunato amore per Giulietta Guicciardi e dai propositi di suicidio (testamento di Heiligenstadt, ottobre 1802); una crisi coincidente – secondo Maynard Solomon – col secondo importante periodo di transizione della creatività beethoveniana che il  Terzo Concerto,  nella sua nella sua stessa singolare fisionomia, sembra ben rappresentare. L’unico in modo minore dei concerti scritti da Beethoven in effetti volta in parte le spalle alla spumeggiante brillantezza esibita nei due lavori precedenti e reinterpreta la concezione formale del concerto classico, estendendone le dimensioni e forzandone i limiti anche a costo di squilibri (non di rado rimarcati nella successiva tradizione critica). Il confronto con il Concerto in do minore K. 491 di Mozart, dal quale derivano la tonalità, reminiscenze motiviche e diversi particolari della scrittura, è in tal senso significativo: malgrado le parentele, il concerto beethoveniano anche a un ascolto distratto appare abbastanza distante dal proprio modello di partenza:  diversa è l’impostazione drammaturgica – primo atto drammatico, secondo atto contemplativo, terzo atto giocoso con finale ottimistico; diverso è anche il modo in cui viene inteso  il rapporto fra solista e orchestra, spesso proiettato in una dimensione antagonistica. Il che è soprattutto vero nell’Allegro con brio, drammatico e marziale, dove all’introduzione orchestrale che è un pezzo chiuso, quasi un’ouverture teatrale, il pianoforte risponde con un’entrata, fatta di imperiose scale ascendenti e di doppie ottave, annuncio di una contrapposizione destinata a caratterizzare tutto il movimento. Nel Largo la scena – illuminata in modo sorprendente grazie all’inconsueta escursione tonale dal do minore a mi maggiore – è quasi completamente dominata dal solista, col quale l’orchestra interagisce in modo discreto. Il dialogo torna a farsi vario e contrastato nel Rondò conclusivo, dove la tonalità d’impianto assume sfumature umoristiche e diversioni sorprendenti, tra cui un episodio fugato, fino alla scintillante coda che, dopo la cadenza, chiude il concerto con un travolgente finale in do maggiore.

 

Benjamin Britten – Simple Symphony op.4

Quasi coetaneo di Rota e come lui dotato di un grandissimo talento naturale, Benjamin Britten (1913-1976) ricevette però ben altra considerazione in patria, affermandosi molto presto come un protagonista della scena musicale inglese del Novecento. Il suo talento straordinariamente precoce è pienamente dimostrato nella Simple Symphony, elaborata fra il dicembre del 1933 e il febbraio 1934, ed eseguita per la prima volta in pubblico il 6 marzo di quello stesso 1934 alla Stuart Hall di Norwich con un’orchestra amatoriale diretta dall’autore. Fin da quella prima esecuzione la partitura fu accompagnata da grandi consensi e insieme alla Sinfonietta op.1 per dieci strumenti, costituì la base della successiva affermazione internazionale di Britten. La «semplicità» annunciata nel titolo proveniva dalla ragion d’essere della Sinfonia, originariamente concepita per esecuzioni da effettuarsi nei colleges inglesi con ensembles studenteschi. Come Britten stesso si premurò di precisare, la partitura era stata interamente costruita con materiali provenienti da opere scritte tra i nove e i dodici anni: «malgrado lo sviluppo di questi temi sia in molti punti abbastanza nuovo ci sono vaste sezioni dell’opera che sono tratte totalmente dai pezzi precedenti». In effetti Britten aveva cominciato a scrivere musica prestissimo, già intorno ai cinque anni, e nel periodo infantile aveva riempito – per sua stessa successiva ammissione – «risme e risme di carta pentagrammata». Ognuno dei quattro movimenti della Simple Symphony recuperava due di quei pezzi infantili, sottraendo in qualche modo all’oblio idee che l’autore considerava meritevoli di essere conservate. La «chiassosa» Bourrée iniziale derivava da un tema della Prima Suite per pianoforte del 1925 e da un brano vocale del 1923 su testo di Alfred Tennyson; il «giocoso» pizzicato, nella forma dello Scherzo con Trio, proveniva dallo Scherzo della Sonata per pianoforte del 1924 con l’innesto di un altro tema derivato dal Road song su testo di Kipling, dello stesso anno; l’intenso lirismo della Sarabanda «sentimentale»,  era emanazione di un Valzer del 1923 e di un brano della terza Suite per pianoforte del 1925; lo «scherzoso» Finale presentava un primo tema scattante proveniente dalla Nona  Sonata per pianoforte del 1926 e un secondo tema ripreso da una canzone del 1925. Opera di un ragazzo che guardava a un sé stesso bambino, viaggio a ritroso verso uno spirito ludico destinato a smarrirsi nel mondo degli adulti, la Simple Symphony era anche il primo segno manifesto della grandissima attenzione per il mondo dell’infanzia che Britten avrebbe conservato lungo tutta la sua vita e che avrebbe trovato una memorabile espressione in The Turn of the Screw. Vincitore del “Premio Abbiati”, prestigioso riconoscimento della critica musicale italiana, quale “miglior solista” dell’anno 2022, Filippo Gorini si afferma, a soli 28 anni, come uno dei più interessanti talenti della sua generazione. Dopo la vittoria nel 2015 al Concorso “Telekom-Beethoven” di Bonn (primo premio, con voto unanime della giuria, e due premi del pubblico), nel 2020 ha ricevuto il “Borletti Buitoni Trust Award”, con il sostegno del quale è in corso di realizzazione un progetto di approfondimento multidisciplinare sull’Arte della Fuga di Bach. Il giovane pianista propone il Concerto n. 3 in do minore di Beethoven nella versione per pianoforte e archi di Vinzenz Lachner con i Solisti Aquilani, compagine di rilievo internazionale, hanno un repertorio va dalla musica pre-barocca alla musica contemporanea. Si sono esibiti in tutta Europa con i più grandi solisti e direttori tra i quali, Paul Badura Skoda, Renato Bruson, Michele Campanella, Cecilia Gasdia, Severino Gazzelloni, Massimo Quarta, Jean Pierre Rampal, Uto Ughi, Federico Maria Sardelli, Ottavio Dantone, Danilo Rea, Fabrizio Bosso, Bruno Canino, Salvatore Accardo, Giovanni Sollima, Mischa Maisky, Vladimir Ashkenazy, Manuel Barrueco e tanti altri. Completano il programma due splendidi classici del XX secolo: il Concerto per archi di Nino Rota e la Simple Symphony op. 4 di Benjamin Britten.

 

*Questo testo non può essere riprodotto, con qualsiasi mezzo analogico o digitale, in modo diretto o indiretto, temporaneamente o permanentemente, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore o della Associazione Alessandro Scarlatti

 

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